Ci sono dolori che non si possono raccontare, assenze che non si possono colmare, silenzi che urlano più di mille parole. La sua mancanza è uno di questi.
Da quando lui se n’è andato, il tempo ha perso il suo senso, le stagioni si susseguono ma non portano con sé la guarigione. Ogni passo che compio, ogni respiro che prendo, porta con sé il peso della sua assenza.
Mi avevano detto: “Devi essere forte.”
Ma nessuno mi ha spiegato come si fa a essere forti quando il cuore viene strappato via, quando la voce che ti ha cullata fin da bambina si spegne per sempre, quando il castello che era la nostra casa resta senza il suo re.
Mio nonno non era solo un uomo, non era solo un parente. Lui era il mio rifugio, il mio porto sicuro, la mia certezza nel mondo. Io ero la sua principessa, e lui il mio re.
E ora, senza di lui, il castello è vuoto.
Ho evitato di tornare in quella casa per anni. Troppi.
Non volevo aprire quella porta e rendermi conto che dentro non c’era più lui. Non volevo camminare per quelle stanze e sentire il peso della sua assenza in ogni angolo, in ogni oggetto rimasto al suo posto.
Ma quel giorno è arrivato.
Ho posato la mano sulla maniglia e il cuore ha iniziato a battere più forte. Ho trattenuto il respiro, cercando di trovare il coraggio che lui mi aveva insegnato. Poi, lentamente, ho aperto la porta.
L’aria era immobile. Il tempo sembrava essersi fermato. Ogni cosa era esattamente come l’avevo lasciata l’ultima volta. Eppure, c’era un’assenza che riempiva ogni spazio.
Ho chiuso gli occhi per un istante, immaginando di sentire la sua voce.
“Principessa…”
Era così che mi chiamava. Sempre.
Ma il silenzio mi ha risposto con la sua crudele realtà.
Ho fatto un passo. Poi un altro. Ed è stato il cammino più difficile della mia vita. Perché ogni passo era un ricordo. Ogni passo era un addio che non avevo mai voluto pronunciare.
La sua poltrona era ancora lì, accanto alla finestra. Quella in cui si sedeva ogni sera, con il giornale tra le mani, mentre fuori il sole tramontava.
Mi sono avvicinata lentamente, come se avessi paura di disturbare quel silenzio. Ho sfiorato il tessuto consumato, chiudendo gli occhi per un istante.
Quante volte mi ero seduta lì accanto a lui, con la testa appoggiata sulla sua spalla, ascoltando le sue storie?
Quante volte avevo riso alle sue battute, trovando in lui un rifugio sicuro?
Mi sono inginocchiata accanto a quella poltrona e le lacrime sono scese senza che potessi fermarle. Non piangevo così da anni.
Credevo di essermi abituata alla sua assenza. Mi ero raccontata che il tempo avrebbe alleviato il dolore. Ma il tempo non guarisce, non cancella. Il tempo trasforma il dolore in nostalgia, in un’eterna mancanza, in un amore che continua a vivere nonostante tutto.
“Nonno, mi senti?” ho sussurrato, con la voce spezzata.
Non mi aspettavo una risposta. Ma in quel momento, una leggera brezza ha attraversato la stanza, facendo muovere appena le tende.
Ho chiuso gli occhi.
Era un caso, forse. O forse no.
Quando ho ricevuto la notizia, ero a duemila chilometri di distanza.
Duemila chilometri.
E ora, tra noi, c’è una distanza ancora più grande.
L’ultima volta che l’ho visto, era attraverso uno schermo. Cercavo di sorridere, di non fargli vedere quanto ero terrorizzata. Ma dentro di me sentivo che il tempo stava per scadere.
“Si salverà, ce la farà”, dicevamo in famiglia facendoci persuasi che la sola speranza potesse trattenerlo in vita e non strapparcelo
Ma poi la speranza ha lasciato il posto al dolore.
L’ho visto spegnersi piano, giorno dopo giorno, fino a che la vita non ha più avuto pietà di lui.
E io ero lì, lontana, impotente.
Guardarlo morire senza poter fare niente mi ha lasciato una ferita che non so se guarirà mai.
Non ho potuto stringergli la mano.
Non ho potuto dirgli che andava tutto bene, che non doveva avere paura.
Non ho potuto dargli un ultimo bacio sulla fronte, sussurrargli che lo amavo.
E questa è la colpa che porto dentro, un macigno che nessuno può togliermi dal petto.
Mi ripeto che lui sapeva.
Sapeva quanto fosse importante per me.
Sapeva che sarei stata lì, se avessi potuto.
Sapeva che il mio amore non aveva bisogno di parole per esistere.
Ma questo non basta.
Non basta perché lo cerco ancora, in ogni istante.
Alzo lo sguardo al cielo e mi chiedo se mi veda.
Se mi senta.
Se sappia quanto mi manca.
E poi, nelle notti d’estate, c’è sempre quella stella.
Più luminosa delle altre.
Più vicina.
Più viva.
E io so che è lui.
Ma il cielo non è l’unico posto dove lo ritrovo.
Era primavera. Ero sola nella mia stanza quando una farfalla ha iniziato a volare intorno a me. Sembrava non avere paura, sembrava sapere esattamente dove andare. Si è posata sul mio letto, accanto a me, restando lì per minuti interminabili.
E in quell’istante, ho saputo.
Era lui.
La prima volta che l’ho capito è stato pochi mesi dopo la sua scomparsa.
Era primavera. Ero sola nella mia stanza quando una farfalla ha iniziato a volare intorno a me. Sembrava non avere paura, sembrava sapere esattamente dove andare. Si è posata sul mio letto, accanto a me, restando lì per minuti interminabili.
E in quell’istante, ho saputo.
Era lui.
Non poteva essere una coincidenza. Non poteva essere solo un caso.
Da quel giorno, ogni anno, quella farfalla torna. La vedo ovunque: nei momenti più tristi, nelle giornate in cui ho più bisogno di lui.
Mi piace pensare che sia il suo modo di farmi compagnia, di proteggermi ancora, di ricordarmi che il nostro legame non potrà mai spezzarsi.
Mio nonno era un guerriero. Non perché non avesse paura, ma perché affrontava tutto con una forza che io ho sempre invidiato. Anche quando il suo corpo si spegneva, anche quando il dolore lo lacerava, non si è mai arreso.
E penso a questo, ogni volta che la vita mi mette alla prova.
Penso a lui quando il mondo sembra troppo pesante sulle mie spalle. Penso al suo sorriso calmo, alla sua voce ferma, al suo sguardo che diceva più di mille parole.
“Non mollare mai.”
Me lo ripeto come un mantra.
Forse è questo il dono più grande che mi ha lasciato: la capacità di resistere, di rialzarmi anche quando sento di non farcela più.
Dicono che il tempo guarisca ogni ferita.
Io non credo sia vero.
Il tempo non cancella il dolore, lo trasforma.
Lo rende meno tagliente, meno crudele, ma non lo fa sparire.
Ci sono giorni in cui la sua assenza pesa come una pietra sul petto.
Giorni in cui la nostalgia si fa insopportabile, in cui il dolore torna come un’onda che travolge tutto.
Ma poi ci sono giorni in cui sento che lui è vicino, più di quanto avrei mai immaginato.
Quando il vento mi accarezza il viso.
Quando la luce del tramonto scalda la terra come faceva la sua voce con il mio cuore.
Quando la farfalla torna a farmi visita.
E in quei giorni capisco che l’amore non muore mai.
Il suo amore vive nei miei gesti, nelle mie parole, nella forza che mi ha lasciato in eredità.
Chiudo gli occhi e lo immagino ancora qui, accanto a me.
Non c’è bisogno di vederlo per sapere che è vicino.
Perché lui è ovunque.
Nel vento.
Nel cielo.
Nella mia forza.
E finché continuerò a portarlo dentro di me, il nostro castello non sarà mai perduto.
Perché il mio re non se ne è mai davvero andato
Quattro anni. Quattro lunghi anni da quando il mio castello ha perso il suo re.
Mi piace pensare che la nostra storia fosse proprio quella di un regno. Lui era il sovrano, io la sua principessa. Un castello fatto di risate, di abbracci, di piccole grandi lezioni di vita. Un castello che lui ha costruito con la sua forza, con il suo amore, con il suo esempio. Ma quando lui se n’è andato, tutto è diventato più freddo, più silenzioso.
Ho cercato di non pensarci, di non affrontare quel vuoto che ha lasciato, ma il dolore è un’ombra che ti segue ovunque. Puoi provare a scappare, a nasconderti, ma prima o poi ti ritrova.
Da quando se n’è andato, ho cercato segni della sua presenza ovunque. E ogni volta che il vento mi sfiora il viso, ogni volta che una piuma cade dal cielo senza motivo, ogni volta che una farfalla appare dal nulla, il mio cuore sa.
Lui è ancora qui.
La casa è rimasta immobile, silenziosa. Ma nel mio cuore, so che lui c’è ancora. È nel vento che mi accarezza, nella luce dorata del tramonto, nelle piccole cose che mi fanno sorridere quando meno me lo aspetto.
Ho imparato a parlargli in silenzio, nei momenti in cui il mondo si fa troppo pesante. Gli racconto tutto: le mie paure, i miei sogni, i giorni in cui mi sento persa e quelli in cui riesco ancora a trovare un po’ di luce.
E a volte, in quelle notti d’estate in cui il cielo è limpido e le stelle sembrano più vicine, mi sembra di sentirlo.
“Sono fiero di te.”
Mi stringo nelle spalle, guardando quella poltrona vuota.
“Sto cercando di essere forte, nonno. Lo sto facendo per te.”
Mi alzo in piedi, asciugandomi le lacrime.
So che la vita va avanti. So che devo continuare a camminare, proprio come lui avrebbe voluto.
Ma so anche che non sono sola.
Il mio castello non è vuoto.
Il mio re non se n’è mai davvero andato.
Perché il suo amore è qui, dentro di me, in ogni passo che faccio, in ogni battito del mio cuore.
E finché vivrà in me, il nostro castello resisterà al tempo.
Per sempre.
I giorni passano, le stagioni cambiano, ma il dolore non ha un calendario. Non segue il tempo, non si dissolve con il vento. È una presenza silenziosa, un’ombra che si allunga dietro di me ovunque vada.
Eppure, in quella casa dove ogni angolo porta il suo nome, ho trovato un rifugio che non credevo di poter affrontare.
Dopo quel primo giorno, ho iniziato a tornarci più spesso. All’inizio, restavo poco. Qualche minuto, forse un’ora. Mi sedevo accanto alla sua poltrona, in silenzio, come se aspettassi di sentire ancora il suono della sua voce. Poi, un giorno, ho aperto i cassetti della sua scrivania.
Le sue cose erano ancora lì. Ogni oggetto raccontava una storia, ogni foglio ingiallito era un pezzo di lui che il tempo non aveva cancellato.
Ho trovato il suo orologio da taschino, quello che portava sempre con sé, legato alla catenina d’argento che brillava sotto la luce del sole. Da bambina adoravo prenderlo tra le mani, far scorrere le dita sulla superficie incisa, ascoltare il suono del meccanismo interno che ticchettava con pazienza, come un cuore che batte.
L’ho aperto con delicatezza.
Le lancette si erano fermate.
Come se il tempo avesse smesso di esistere insieme a lui.
L’ho stretto nel palmo, chiudendo gli occhi.
“Principessa, ricorda sempre: il tempo è il bene più prezioso che abbiamo.”
Quante volte me l’aveva detto?
Quante volte mi aveva insegnato che ogni istante è un dono, che il passato è un tesoro da custodire, ma che il futuro è una tela bianca tutta da dipingere?
Eppure, mi sembrava di essere rimasta ferma, intrappolata in quel giorno in cui lui aveva chiuso gli occhi per l’ultima volta.
Mi sono guardata intorno.
Quella casa non era solo un luogo di dolore. Era un luogo di memoria. Un santuario di tutto ciò che eravamo stati.
E forse, se avessi avuto il coraggio di aprire davvero gli occhi, avrei potuto trovare non solo il passato, ma anche una strada per il futuro.
Mio nonno non conosceva la parola abbandono. Per lui esistevano la resistenza, la lotta, la determinazione. Non importava quanto fosse difficile il cammino: chi si fermava, chi rinunciava, non era debole, ma stava solo dimenticando di cercare dentro di sé la forza per rialzarsi.
E questa era la lezione più grande che mi aveva lasciato.
Io però non ero sicura di averla mai davvero imparata.
Mi chiedo: lui saprà la donna che sono diventata oggi?
Mi ha vista da bambina, mi ha tenuta per mano quando il mondo era ancora semplice, quando le paure erano piccole ombre che si dissolvevano con la sua voce rassicurante. Ma non ha visto la mia crescita, non ha visto i giorni in cui il mondo è diventato più grande, più difficile, e io ho dovuto imparare a camminare senza di lui.
È partito troppo presto. Senza sapere chi sarei diventata.
Forse è meglio così. Perché mostrarsi vulnerabili è sempre stato il nostro più grande timore.
Ma il destino, o chi per lui, ha trovato comunque un modo per lasciarmi un segnale.
Il segno della farfalla
Non sono una di quelle persone che crede nei segni, nei messaggi dell’aldilà. Ma non posso ignorare ciò che è successo.
Il giorno del funerale di mio nonno, una farfalla volava sopra il suo corpo.
Me lo hanno raccontato, e io ho trovato qualcosa di straordinario in quell’immagine. Non avevo mai visto una farfalla a marzo, nel freddo pungente dell’inverno.
Era solo una coincidenza? Forse.
Ma poi, nel giorno del mio diciottesimo compleanno, la stessa farfalla è tornata.
Era il giorno della mia transizione da bambina ad adulta. La giornata in cui lui avrebbe dovuto essere seduto accanto a me, con il suo sguardo fiero e il suo sorriso silenzioso. E invece, quando mi guardavo intorno, l’unica cosa che vedevo era quella sedia vuota, quel posto che nessuno poteva occupare.
Ma mia madre mi ha indicato la finestra.
“Quella è la stessa farfalla che c’era al funerale di Nonno.”
Mi sono voltata e l’ho vista. Leggera, fragile eppure così presente. Non potevo ignorarla.
Mi ha osservata per qualche istante, e poi è volata via.
E in quel momento, ho capito.
Lui era lì.
Segni nella vita quotidiana
Dopo quel giorno, ho iniziato a notare altre piccole cose.
Una brezza improvvisa in una giornata senza vento. Un profumo nell’aria che mi ricordava lui. Una canzone alla radio che non ascoltavo da anni, ma che mi riportava dritta a un pomeriggio passato con lui.
E ogni volta, sorridevo.
Non perché credessi che fosse magia. Ma perché capivo che non ero mai stata davvero sola.
Lui viveva nei dettagli, nelle cose invisibili agli occhi degli altri ma così chiare per me.
E allora mi sono chiesta: cosa direi oggi a mio nonno, se potessi parlargli?
Un dialogo immaginario
“Nonno, mi senti? Sono io. La tua nipote, la tua bambina che oggi è diventata una donna. O almeno, ci sto provando. Mi manchi, sai? Ogni tanto mi ritrovo a pensare a tutte le cose che avrei voluto raccontarti. A tutte le domande che avrei voluto farti. A come sarebbe stato se fossi rimasto ancora un po’.”
“A volte mi chiedo se sarei stata più forte con te accanto. Se avrei affrontato il mondo con più coraggio, se avrei avuto meno paura di sbagliare. Ma poi mi ricordo quello che mi hai insegnato. E allora capisco: la forza che cercavo l’ho sempre avuta dentro di me. Me l’hai lasciata tu.”
“E quindi, sai una cosa? Non devo più chiedermi se mi vedi. Perché la verità è che non hai mai smesso di guardarmi. Sei qui. Sei in ogni mia scelta, in ogni mia caduta e in ogni mio rialzarmi. Sei nelle mie parole quando cerco di essere forte, nel mio cuore quando mi manca il coraggio. Sei nel battito d’ali di quella farfalla, che mi ha sfiorata quando ne avevo più bisogno.”
“E per questo, non ti dirò addio. Perché non ci siamo mai detti addio davvero.”
Un amore che non muore mai
Alcuni direbbero che sono solo coincidenze.
Che quella farfalla non aveva nulla a che fare con mio nonno.
Che i segni che vedo sono solo frutto della mia mente, del mio desiderio di sentirlo ancora vicino.
Ma non importa.
Perché io so che l’amore vero non scompare. Non si spegne con il tempo, non si perde con la distanza.
L’amore vero rimane.
E io porterò per sempre dentro di me ogni insegnamento di mio nonno, ogni suo valore, ogni suo sguardo silenzioso che mi diceva tutto senza bisogno di parole.
E ogni volta che vedrò una farfalla, chiuderò gli occhi e sorriderò.
Perché so che lui sarà sempre accanto a me.
L’assenza che pesa
Adesso torno e ci sono sguardi che non mi appartengono, attenzioni che non voglio, mani che cercano di sfiorarmi senza sapere chi sono. E dentro di me sento solo un vuoto immenso, un’assenza che pesa più dell’aria stessa.
Nessuno di loro sa chi sono davvero.
Nessuno sa chi era fatto per la tua principessa.
Tu sì. Tu lo avresti saputo.
Perché tu mi guardavi e vedevi oltre. Oltre i sorrisi di circostanza, oltre la forza che fingo di avere, oltre il coraggio che a volte mi manca.
Ora nessuno mi guarda in quel modo.
Ora nessuno mi protegge con la tua presenza silenziosa ma assoluta.
La paura di non farcela
Nonno, lo confesso… ho paura.
Ho paura perché non mi sento più a casa.
Perché la mia casa eri tu.
Non importa in quale angolo del mondo mi trovassi, bastava sapere che c’eri, che esistevi, che un giorno sarei tornata e ti avrei trovato lì, seduto nella tua sedia con quello sguardo fermo e saggio.
Ma adesso torno e non trovo più niente di tutto questo.
Torno e le strade sembrano più vuote, i muri più freddi, l’aria più pesante.
Torno e cerco disperatamente un segno di te.
A volte penso che ti rivedrò all’angolo della strada, come se il tempo non fosse mai passato. Mi illudo che da un momento all’altro sentirò la tua voce chiamarmi, dirmi con quel tono deciso ma affettuoso di smetterla di pensare troppo, che tanto le cose si aggiustano sempre.
Ma il silenzio mi risponde.
E ogni volta mi rendo conto che questa è la verità che non voglio accettare: tu non ci sei più.
E non importa quanti anni passino, non importa quante persone incontrerò, quante nuove esperienze vivrò, la tua assenza sarà sempre la mia ferita più profonda.
Le parole non dette
Vorrei avere la possibilità di dirti tutto ciò che non ti ho mai detto.
Vorrei dirti che, anche se a volte mi sento persa, ho cercato di essere forte come mi hai insegnato tu.
Che la vita mi ha messo alla prova più volte, che mi ha schiacciata, che mi ha fatto dubitare di me stessa, che mi ha tolto tanto… ma non mi ha spezzata.
Vorrei dirti che avrei voluto condividere con te anche le mie sconfitte, quelle che ho nascosto perché non volevo deluderti.
Vorrei raccontarti tutto ciò che non sai, tutto quello che ho vissuto quando tu non potevi più esserci.
Ma ormai è tardi.
Nonno, voglio che tu sappia una cosa: l’amore che provo per te non morirà mai.
Non importa quanti anni passeranno, non importa quante persone entreranno e usciranno dalla mia vita.
Tu sarai sempre il mio punto fermo.
Se un giorno troverò qualcuno che sarà capace di amarmi, che sarà abbastanza forte da sopportare le mie paure, che saprà proteggermi senza spezzarmi, allora so che sarà perché, in qualche modo, lo avrai scelto anche tu.
Fino ad allora, terrò stretto il ricordo di te, la tua voce, i tuoi insegnamenti.
E ogni volta che vedrò una farfalla, sorriderò, perché saprò che, da qualche parte, sei ancora qui.
Il 22 marzo.
Un giorno che per molti è solo una data sul calendario, un giorno che passa inosservato come tanti altri. Ma per me no. Per me il 22 marzo è un peso sul petto, un nodo in gola, una ferita che non smette mai di sanguinare.
È il giorno in cui hai lasciato questo mondo.
E ogni anno mi chiedo se dovrei viverlo come un modo per ricordarti o se dovrei cercare di distrarmi, di riempirlo di rumore e di impegni per non sentire il silenzio che porta con sé.
Ma non ci riesco.
Perché quel giorno non è come gli altri.
Non è solo un giorno qualunque, né mai lo sarà.
Se tu fossi ancora qui, forse sarebbe stato solo un giorno normale. O forse sarebbe stato un giorno speciale, uno di quelli in cui avremmo trovato una scusa qualsiasi per ridere insieme, per sederci a tavola, per raccontarci storie vecchie come il tempo eppure sempre nuove per noi.
Ma invece è il giorno che mi ha tolto tutto.
E io non so come affrontarlo.
Ogni anno, quando il calendario si avvicina al 22 marzo, sento dentro di me un’ansia sottile, un dolore che cresce piano piano, come un’onda che si prepara a travolgermi.
E ogni anno mi ritrovo a piangere, perché non riesco ancora ad accettarlo.
Un’assenza che non si colma
Dicono che il tempo guarisca le ferite, ma io non ci credo più.
Forse il tempo insegna solo a conviverci, a sorridere mentre dentro fa ancora male, a rispondere “sto bene” anche quando il cuore sta urlando.
Ma guarire? No, non si guarisce mai davvero.
Perché ci sono persone che lasciano dentro di noi un vuoto che niente e nessuno potrà mai colmare.
Tu eri una di quelle persone.
E la tua assenza non è qualcosa che si dimentica.
Non è un dolore che si attenua con il tempo.
È una parte di me che manca, una parte che non tornerà mai più.
Come si sopravvive a un giorno così?
Mi chiedo spesso cosa dovrei fare il 22 marzo.
Dovrei chiudermi in casa e lasciarmi travolgere dai ricordi?
Dovrei riempire la mia giornata di impegni, di persone, di voci, per cercare di non sentire la tua mancanza?
Dovrei andare in un posto che amavi, sedermi lì e parlarti come se potessi ancora ascoltarmi?
Ogni anno provo qualcosa di diverso, ma il risultato è sempre lo stesso: alla fine della giornata, il dolore è ancora lì.
E la verità è che non c’è un modo giusto per affrontare un giorno così.
Posso solo imparare a conviverci.
Posso solo accettare che, ogni anno, quel giorno mi farà male.
E che va bene così.
Perché se fa ancora male, significa che il nostro legame era vero.
Che il tuo amore non se n’è mai andato.
Che anche se non posso più vederti, sento ancora la tua presenza dentro di me.
Il peso dei ricordi
Ci sono giorni in cui mi sento in colpa per il tempo che passa.
Perché ogni giorno che vivo è un giorno più lontano da te.
E ho paura di dimenticare.
Ho paura che la tua voce, un giorno, diventi solo un’eco lontana nella mia mente.
Ho paura che il tuo viso si confonda nei miei ricordi, che le tue risate diventino solo un’illusione, che i dettagli più piccoli – quelli che una volta mi sembravano incancellabili – inizino a sfumare nel tempo.
Ma poi mi accorgo che tu sei ovunque dentro di me.
Se chiudo gli occhi, ti vedo.
Ti vedo nei gesti che faccio senza nemmeno rendermene conto, in quelle espressioni che mi vengono spontanee e che un tempo erano le tue.
Ti sento nei valori che mi hai lasciato, in quella forza che hai sempre cercato di insegnarmi.
E so che non potrò mai davvero perderti.
Un modo per farti vivere ancora
Forse il vero modo per affrontare il 22 marzo non è cercare di dimenticare.
Forse non è nemmeno cercare di riempirlo di cose, di persone, di distrazioni.
Forse l’unico modo è trasformare il dolore in amore.
Trovare un modo per farti vivere ancora.
Parlare di te, raccontare chi eri, mantenere vivo il tuo ricordo nelle persone che mi stanno accanto.
Fare qualcosa che ti avrebbe reso fiero, che avrebbe fatto brillare i tuoi occhi di orgoglio.
Continuare a vivere come tu avresti voluto.
E forse, un giorno, riuscirò a sorridere il 22 marzo.
Non perché il dolore sarà sparito.
Ma perché saprò che, anche se non sei più qui fisicamente, il tuo amore non mi ha mai lasciata davvero.
Allora, Nonno, ti dedico queste parole.
Questa è la tua principessa che ti scrive.
Scrivere è l’unico modo che ho per parlarti adesso, l’unico rifugio che mi permette di non cedere, di restare in piedi quando il dolore mi schiaccia, quando la tua assenza pesa più di qualsiasi altra cosa.
So che non potrò mai più sentire il calore del tuo abbraccio. So che non potrò più sentirti pronunciare quelle parole che mi facevano ridere e sentire al sicuro: «Sei tu la mia principessa?»
Quanto mi manca risponderti sì, e poi vedere i tuoi occhi illuminarsi di orgoglio.
Ma anche se non posso più sentire la tua voce, terrò stretto ogni tuo gesto, ogni tuo sguardo, ogni tuo sorriso.
Anche se non sei più qui, sei in ogni cosa che faccio.
Anche se non sei più accanto a me, so che mi vedi.
Hai perso tanti dei miei passi, hai perso molte delle strade che ho percorso da quando sei andato via, ma voglio credere che ora, dal cielo, tu possa seguirmi ovunque vada.
E voglio credere che tu mi protegga ancora.
Il battito d’ali di una farfalla
Non so se la gente mi crederà pazza, ma non mi interessa.
Io lo so.
Io so che sei tu.
Sei tu quella farfalla che appare nei momenti più importanti della mia vita.
Sei tu quel battito d’ali che mi sfiora quando sono in bilico tra la paura e il coraggio, quando il dolore sembra sopraffarmi e poi, all’improvviso, qualcosa dentro di me si accende e mi spinge avanti.
Sei tu che vegli su di me, proprio come facevi quando ero bambina.
Forse non posso vederti con gli occhi, ma ti sento con il cuore.
E mi basta questo per sapere che non mi hai mai lasciata davvero.
Quello che non ti ho detto
Nonno, c’è qualcosa che non ti ho mai detto.
Un qualcosa che ho tenuto nascosto.
Un qualcosa che mi porto dentro da tempo.
Mi chiedo spesso: se tu fossi stato qui, avrei avuto il coraggio di raccontartelo?
Forse sì.
Forse no.
Ma adesso so che non c’è più bisogno di dirti nulla, perché tu già sai.
Tu mi segui.
Tu mi guardi.
Tu vedi ogni cosa che ho vissuto, ogni paura che ho affrontato, ogni lacrima che ho nascosto dietro un sorriso.
E forse è per questo che quella farfalla è sempre accanto a me.
Perché tu sai.
Sai tutto.
E cerchi ancora di proteggermi, di tenermi al sicuro.
Di fare in modo che la tua principessa non soffra più.
Un lungo cammino da percorrere
Nonno, ho ancora tanta strada da fare.
Ho ancora così tante paure da affrontare.
A volte mi sento forte, altre volte mi sento fragile.
A volte penso di essere pronta a tutto, altre volte ho solo voglia di nascondermi da questo mondo.
Ma quando mi sento persa, quando non so da che parte andare, cerco una farfalla.
E so che se la vedo, significa che sei lì.
A dirmi di non arrendermi.
A dirmi che ce la posso fare.
A ricordarmi che non sono sola.
Un amore che non morirà mai
Ti voglio tanto bene, Nonno.
Te ne vorrò sempre.
Non esiste distanza, tempo o silenzio che possa spezzare il legame che avevamo.
Sei stato, sei e sarai sempre il mio re.
E io sarò per sempre la tua principessa.
Quella che hai amato, quella che hai protetto, quella che hai reso la donna che sono oggi.
Quella che, anche senza di te, continuerà a camminare a testa alta.
Perché tu mi hai insegnato a non mollare mai.
E per te, non mollerò mai.